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Ferrandina - Il Castello di Pizzocorvo
Ferrandina Presso Pizzocorvo, una fortezza-masseria a sud di Matera presso Ferrandina, c’era un Re che non aveva figli e per averne avrebbe fatto l’impossibile. Cercava dunque d’essere gentile e caritatevole con tutti, specialmente con la povera gente, nella speranza che la riconoscenza degli altri gli fosse d’aiuto. Non era però altrettanto nota la ragione di tutta quella sua bontà, né si sapeva ch’egli sperava, come ricompensa, di avere un figlio. Ma dopo aver fatto tante opere di pietà il re si stancò e cambiò stile di vita.
Non ascoltava più le richieste d’aiuto; chiuse il cuore alla compassione, e si rifiutò si dare soldi ai più poveri. Divenne anzi cupo e scontroso. Si chiuse nella reggia, senza ricevere più nessuno, neppure la Regina. La notizia del mutamento del re non era ancora andata per il mondo, quando alla porta della città giunse un vecchio pellegrino stanco che camminava a stento, quasi strascinando per terra la lunga barba.
Dopo quello che aveva udito sul conto del re, si meravigliò moltissimo di non trovare nessuna buona accoglienza alla porta. Non volevano neppure farlo entrare, perché vecchio, stanco e povero.
Venne rifiutato dagli ospedali, scacciato dalle mense, e alla fine cadde mezzo morto dinanzi alla porta del palazzo, guardata non soltanto dai soldati, ma anche da cani ferocissimi. Stava per essere addentato e arrestato, quando arrivò la regina, che ancora serbava un po’ di pietà per i disgraziati. Alle lamentele del pellegrino, ella cercò di scagionare il Re, rivelando il dolore segreto ch’egli aveva di essere rimasto senza eredi. Il pellegrino sorrise amaramente e, scuotendo la bianca testa, disse: “Il re, tuo marito, sbaglia prima a far del bene per uno scopo suo personale e sbaglia ancora a non farlo più, essendo stato deluso. Tu che sei più virtuosa di lui, compi almeno un’opera di pietà, ma senza volere ricevere in cambio nessuna grazia. Aiutami a rialzarmi, ma non pensare al figlio, che verrà se Dio vorrà”.
Dopo qualche mese la regina, con grande commozione, annunziò al re d’attendere un bambino. La stessa cosa, più in segreto, disse la domestica al proprio marito. Nacquero così due bellissimi bambini, somiglianti fra loro come gemelli: uno della regina, l’altro della domestica. Il primo venne chiamato Federico; il secondo Nino.
Crebbero insieme. Insieme impararono a giocare. Insieme impararono a parlare. Insieme impararono a cacciare; e, poiché i tempi lo richiedevano, insieme impararono anche a guerreggiare.
Ma la spina nel cuore del re non si era totalmente spuntata, perché, osservando con attenzione la condotta dei due giovani, s’accorse che il figlio della domestica era più dotato del suo. La differenza era lieve, era addirittura impercettibile, ma Nino aveva sorriso un istante prima di Federico. Era più destro nei giochi, più sicuro nella mira dell’arco, più agile nel cavalcare, più rapido nel maneggio della spada.
Il re era geloso di lui e non lasciava occasione per umiliarlo e rimproverano. Un giorno, nell’assenza di Federico, giunse a ferirlo sulla fronte. Nino però non lo tradì mai; disse d’aver battuto la testa contro lo spigolo d’una tavola. Poi, per celare la cicatrice, si calcò bene il cappello sulla fronte, cercando di non scoprirsi. Capì però che l’aria della corte non gli era più propizia. Chiese licenza al re e partì in cerca di fortuna.
Il re era soddisfatto. Chi soffrì della decisione di Nino fu Federico, che lo amava davvero come un fratello. Egli non era mai stato geloso dell’amico e non aveva mai fa pesare sul compagno il suo titolo di principe. “Dunque”, gli andava dicendo, “non t’importa nulla me! Tu dici di volere andare in cerca di fortuna. Ma noi stata per te fortuna nascere in questa reggia e crescere insieme a me?”.
Alle parole di Federico, il figlio della domestica si commosse, ma fu irremovibile. Piantò il coltello nel terreno e da lì spuntò una sorgente, e disse all’amico: “Ecco, questa sarà la fonte delle mie notizie. La vedi zampillare, chiara e fresca, vorrà dire che godo buona salute. Se la vedrai torbida, vorrà dire che sono ai malato o mi trovo in disgrazia”. Balzò in sella, spronò il cavallo e sparì.
Ogni mattina, Federico andava alla fontana, che per m ti giorni si mantenne abbondante, limpida e fresca.
Per molto tempo la fontana si mantenne abbondante e tersa. Ma dopo un po’, improvvisamente, divenne arsa e torbida.
Nino, durante un temporale presso Pisticci, si rifugiò in una grotta, dove cercò di entrare anche una cerva. “Entra pure e sii la benvenuta”. Ma la cerva, facendo l’atto d’aver paura, iniziò a parlare: “Grazie. Ma ho paura dei cani, che vogliono mordermi”. Nino legò i cani che erano con lui, ma la cerva continuò: “Grazie, ma temo che il cavallo mi uccida con i suoi calci”. Nino legò le zampe del cavallo. “Sarebbe bene smontare l’arco e spuntare le frecce”, continuò a dire la cerva “e infine legare anche la spada”.
A questo punto la caverna fu scossa da un boato e riempì di fumo. La cerva sparì ed al suo posto un orribile mostro: era l’Orco, che aveva preso la forma cerva per attirare lo sfortunato cavaliere in un tranello.
La mattina dopo, Federico vide la fontana che, con goccioloni quasi neri, sembrava piangere per la sorte di Nino. principe decise subito di correre in aiuto dell’amico.
Arrivò presso Pisticci dove vide che il paese era in lutto per la scomparsa del giovane, creduto ormai morto. Alla vista di Federico, che era la copia perfetta dell’amico, tutti esultarono, portandolo in trionfo alla reggia. Federico non volle rivelare chi egli fosse. “Che cosa ti è accaduto?”, gli chiedeva la principessa. “Non ricordo”, rispondeva Federico. “Sei forse entrato nella foresta dell’orco?”. “Può darsi”. “Hai forse visto la cerva fatata?”. “Mi pare di sì”. “L’Orco si trasforma spesso in quell’animale tanto grazioso...”. Federico capì tutto. Trovò la foresta, entrò nel folto bosco dove gli apparve la solita bellissima cerva. Anche allora scatenò il temporale. Allora anche Federico si rifugiò nella caverna. Anche allora la cerva, fingendosi timorosa, gli chiese d’entrare, pregandolo di legare i cani e il cavallo, di rompere l’arco, di spuntare le frecce e di chiudere la lama della spada. Ma Federico fu più accorto del suo amico, perché ormai sapeva che nella cerva si celava un terribile mostro.
Sguainata la spada, le tagliò la testa. La caverna fu scossa da un boato, si riempì di fumo, e ai piedi di Federico, invece della cerva, un orribile mostro giaceva in una pozza di sangue. Segui un silenzio nel quale Federico udì il flebile lamento dell’amico, che era incatenato sul fondo della caverna. Lo liberò e lo portò all’aperto. Arrivarono a Pisticci, ma presto partirono per la loro casa comune, ovvero Pizzocorvo.
FONTE: Consiglio Regionale di Basilicata.
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