Territorio
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Anzi - Il Castello
Anzi Il principe di Anzi aveva tre figli. Un giorno il più grande volle andare a caccia e, sistemata la colazione nella bisaccia, montò a cavallo e si diresse verso le Serre.
E siccome nessuno dava segni di vita lì dentro si tolse i panni bagnati e li sparse accanto al fuoco che crepitava allegro nel camino. Dopo di che tirò fuori dalla bisaccia le sue provviste e cominciò a mangiare.
D’un tratto apparve una vecchia strega che incrociando le mani sotto le ascelle tutta intirizzita esclamava: “Oh figlio, che freddo! Oh figlio, che gelo!”
Il giovane s’impressionò a quella improvvisa apparizione, ma poiché era intrepido di natura subito si riprese e offrì alla vecchia metà della sua provola e metà della sua frittata.
Non si accorgeva, poverino, che le unghie della megera si allungavano a vista d’occhio, e tanto crescevano e tanto si arcuavano che in un baleno potettero afferrarlo e stritolarlo. A quel punto il cadavere venne raccolto da mani sconosciute e deposto in un sotterraneo dove giacevano decine di altri sventurati.
Il padre intanto, non vedendo tornare più il primogenito, s’impensierì e mandò il secondo figlio a cercarlo, ma anche costui, giunto alla casa maledetta, si fermò per la colazione e cadde vittima della strega.
Partì infine il terzo figliuolo che, sorpreso dal temporale nel bosco, si rifugiò nella tana che sappiamo. Questi però, a differenza dei fratelli, si accorse in tempo che le unghie della vecchia si allungavano spropositatamente e fu lesto ad agire: sfoderò la sciabola e infilzò al petto la megera la quale, prima di spirare, ebbe l’animo di rivelargli: “Figlio mio, giacché mi hai dato scacco matto meriti di sapere una cosa: là nello stipo c’è un unguento che fa risorgere i morti. Prendilo e ungi con esso i corpi che troverai nel sotterraneo. E adesso bruciami e spargi le mie ceneri nel bosco”
Il giovane eseguì fedelmente quello che gli era stato richiesto, aprì il vaso dell’unguento, unse i corpi di alcuni estranei e dei fratelli e portò questi ultimi sani salvi alla reggia.
Giunti al palazzo, una nuova sciagura li doveva affliggere: il vecchio principe, un pò per la pena de suoi figlioli e un pò per le lacrime versate, era diventato cieco e il medico andava dicendo che per guarire erano necessarie le penne del pavone da strofinare sulle palpebre dell’infermo.
I tre fratelli si rimisero dunque in cammino, ciascun per una strada diversa. Il più piccolo, quello che aveva salvato dall’incantesimo gli altri due, incontrò una donna che gli chiese: “Dove vai per queste vie?”. E lui: “Vado in cerca delle penne del pavone per mio padre cieco”.
La vecchierella, che in verità era Santa Lucia, la cui chiesa si trova ad Anzi, disse allora: “Vedi là quel palazzo bianco? Non vi sono scale ma io ti darò questa scaletta a molla con la quale potrai salire e prendere le penne che si trovano nella campana di vetro dell’ultima stanza”.
Il giovane ringraziò di tutto cuore il viandante, si arrampicò sulla scala a molla, raggiunse il luogo indicato e se ne tornava sereno alla reggia col rimedio miracoloso quando s’imbatté nei fratelli che, più infami degli infami briganti di Rionero, lo uccisero per gelosia e lo buttarono in una gravina.
Il padre, poveretto, ormai risanato grazie alle penne sottratte al terzogenito, continuava ad aspettare il ritorno di quest’ultimo e non riusciva a capacitarsi della sua prolungata assenza.
Una mattina un pastore, puntando a terra il bastone, sentì che il suolo cedeva e, sicuro di trovare un tesoro, scavò fin quando non fu a contatto con un mucchio di ossa che egli scambiò per assicelle di legno. Da una di esse ricavò uno zufolo e si mise a suonare; ed ecco chè dai buchi dello strumento prese a uscire un doloroso ritornello:
“ Mio pastore, mio .pastore
tienimi tienimi, non mi far cadere
per una penna d’uccello pavone
mi hanno ucciso senza ragione... “
L’uomo, fuori di sé dalla meraviglia, andò dal re con lo zufolo fatato e al suo cospetto si rinnovò il prodigio:
“…Pietro mi reggeva
e Nicola mi uccideva.
Nicola fu il traditore”
Il re rabbrividì a questo canto, fece chiamare i fratelli e, dando esempio di giustizia al popolo che si era raccolto sotto le finestre del palazzo, ordinò che fosse gettato in mare Nicola e punito con cinque tratti di corda Pietro. Passò ancora un pò di tempo e il sovrano che aveva ormai raggiunto la tarda età e non aveva avuto in sorte una vita felice, chiuse gli occhi, pace a lui, proprio mentre dallo zufolo del pastore si levavano dolci note:
“Padre mio, padre mio
ti terrò stretto,
non ti farò cadere
per una penna d’uccello pavone
staremo insieme fino all’Ascensione”.
FONTE: Consiglio Regionale di Basilicata.
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