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Armento - La Storia
Armento, comune in provincia di Potenza, si trova a 710 metri sul livello del mare distante 75 chilometri dal capoluogo, vantava, fino a non molti anni fa il titolo di Città e di baronia dei Vescovi di Tricarico. Il Comune non è rimasto indenne dalla sorte di tanti altri comuni lucani, stremati dalla emorragia emigratoria diretta nelle città d'Italia e dell'estero, solo l'urgenza di una persistente disoccupazione.
La sua storia si perde nella notte dei tempi fino dal secolo VI e VII avanti Cristo prima di Roma quando proprio non risale alla guerra di Troia (1193 - 1184) a.C. come lascia immaginare l'iscrizione del nome Patroclo su un vaso greco a tre manichi. Il suo nome originario, al pari di altri della toponomastica lucana, secondo alcuni studiosi sarebbe un ricordo dell'età eneolitica, per la lontana assonanza col nome Armenia, mentre secondo il Racioppi, risalirebbe al medio evo: Armento, metatesi di Rammento,sodaglia sparsa di fratte e macchieti, atti al pascolo.
Il paese odierno sorse probabilmente su un luogo dell'antica Galasa o Calasarna, ricordata da Strabone VI, 390, floridissima città manifestata dalle nobile reliquie di una necropoli. Un luogo in agro di Armento è ancora oggi detto Galaso e documenti medioevali menzionano un Monasterium Galasi presso la Serra Lustrante. Il nome di Armento giova ripeterlo, è legato a quello dell'Abate S. Luca che figura a cavallo con aureola e pastorale nello stemma del Comune. La sua fama è legata soprattutto alle scoperte archeologiche della prima metà dell'Ottocento donde provengono insigni cimeli di antica arte italo-ellenica: monete, armature, oreficerie, terrecotte figurate e una prodigiosa ricchezza di ceramiche dipinte che arricchiscono i musei di Policoro, di Potenza, di Napoli, di Monaco di Baviera, di Londra.
Le ceramiche dipinte si aggiungono a
quelle non meno numerose ritrovate ad
Anzi sul finire del 700. Della
ceramografia di Armento si sono occupati
non pochi studiosi. L'archeologo A.
Lombardi di Tramutola intuì l'esistenza
di due scuole diverse ad Anzi e ad
Armento. In quest'ultima si scorge una
scuola che aveva i propri soggetti, i
propri gusti, li variava e li seguiva
con amore di artista e non per meno
amore di commercio. Il mestiere ad
Armento voi non lo trovate. In ogni
faccia del vaso voi trovate una scena
mitologica, diversa per ciascuno, ma
dipinta con egual cura, tanto che per
Armento non si può nemmeno parlare di
diritto e di rovescio. E' questo dice
quanta coscienza di artisti ebbero
questi nobili ceramisti di Armento.
Questa copiosa varietà di vasellame ci
induce a rappresentarci le persone che
lo usarono e gli usi che ne facevano.
Servivano per nozze o per funerali, per
celebrazioni dei misteri dionisiaci ed
eleusini che, al pari di altri erano
basati sulla aspirazione umana
all'immoralità. L'immortalità è
l'anelito che accomuna la nostra anima
all'anima dei nostri progenitori
precristiani di Armento.
Da un sepolcro rinvenuto nella Serra
Lustrante di Armento nel 1813 venne
fuori la celebre corona d oro di
Critonio di cui dettero notizia F. M.
Avellino, il Brigandi e il Racioppi che
cosi la descrisse: "E' una ricca
intrecciatura di nomi e frondi di
quercia, con un gran rigoglio di fiori a
corolle e calici aperti e smaltati in
blu - turchese. Alati insetti pare si
appoggino sulle estremità oscillanti per
i delicatissimi gambi dei fiori e alcune
figure di donne alate poggiano sui rami
che formano il serio, il tutto in oro.
Meraviglioso gioiello in cui la libera
leggerezza dell'esecuzione, l'avvisato
scompiglio dell'insieme e il ricco
intreccio della vegetazione danno al
tutto l'espressione della natura viva e
reale. Porta scritto in greca lettera
dell'alfabeto enclideo: Critonio dedicò
questa corona. E se costui fosse
l'artefice o possessore non so: ne so
decidere, tra gli opposti pareri, se
opera a destinazione funebre o se
piuttosto a destinazioni civili solenni,
prima dell'inumazione. La grafia dei
caratteri indicherebbe i principi del VI
secolo avanti Cristo. Probabile opera
grecanica della civiltà italiota".
La preziosa corona fu venduta, asserisce
una tradizione, per sessantamila ducati
e finì nel museo Archeologico di Napoli
e da qui, come dono di nozze, dai
Borboni agli Asburgo di Vienna e da qui
al Museo Statale di Monaco di Baviera
dove costituisce il pezzo più
ragguardevole.
Data l'importanza del cimelio, non paia
superfluo la narrazione che ne fa il
poeta di Montemurro Leonardo Sinisgalli
con dovizia di particolari nel suo libro
"Lalbero bianco" "al Capitolo il serto
d'oro".
Fu una mattina del 1813 che un pastore
di Armento tale Nicola Dimastrorocco
conduceva al pascolo la sua scrofa e
dodici porcellini, in una contrada, la
Serra Lustrante a mano destra del
torrente Favaleto. Si era seduto sotto
una quercia, poi si era disteso per
assopirsi e aveva appoggiato la testa
sulla giacca piegata a cuscino per
vigilare la sua nidiata. Nicola aveva
poco più di quindici anni quel giorno di
maggio del 1813. A quindici anni si ha
tanta voglia di dormire e di stendersi.
Si svegliò, infilò la giacchetta, si
guardò intorno. Cominciò a chiamare le
sue bestie ma non vedeva e non udiva
nulla. Provò a zufolare con il suo
fischietto e uno dietro l'altro i dodici
porcellini gli corsero incontro e lo
trascinarono ad una cinquantina di metri
da quel sito presso una tomba dove la
scrofa col grugno faceva scempio di uno
scheletro. Il ragazzo non ebbe paura:
aveva visto giocare tante volte i maiali
con una tibia con una scapola con un
teschio su quella pianura. Tuttavia non
aveva mai incontrato uno scheletro, le
ossa delle mani le ossa dei piedi. Uomo
o donna egli non sapeva dire: stava
supino, le palme delle mani aperte, i
grappoli delle ossa e dei piedi
appiattiti. Stretta all'inguine,
offuscata dalla polvere scura, vibrava
miracolosamente intatta una piccola
corona di metallo, il ragazzo si
avvicina e tenta di afferrare con la
mano il magnifico setto. Ma si ritrae di
scatto: gli è parso di sentire
scricchiolare le ossa del morto. Che
voglia ghermirlo? non è accaduto
qualcosa di simile al ladro del tesoro
della Vergine Nera di Viggiano? non è
rimasto il ladro attaccato alla gabbia
della Padrona? Pure quell'oggetto
meraviglioso lo ottura. Allunga il
braccio, chiude gli occhi, sente tinnire
i calici di oro. Fugge. Ed eccolo sotto
la quercia caduto il sole, circondato
dai dodici porcellini e dalla scrofa
irrequieta. Eccolo in piedi che zufola,
il capo incoronato della mitria
scintillante. Le api di oro che
succhiano il miele dai calici ronzano
aggrovigliate ai suoi piccoli bruni.
Splendono le maiuscole euclidee ricordo
di un una amicizia millenaria. Dicono:
Kreitonios ètecke toei stèfanon /
Critonio dedico questa corona
Dunque Armento e tutta la plaga era
stata colonizzata dai greci, si parlava
in greco di cui ancora oggi dura qualche
locuzione nel dialetto e se ne trova
riscontro anche in Plinio la dove dice "Tenuerunt
eam Pelasgi Aenotri. Siculi, Graeciae
Maxime Populi, Novissime Lucani" cui
seguirono i Romani e siamo nella prima
metà del terzo secolo Avanti Cristo.
Nota il Robortella, della stessa era
Romana non mancano in Armento
testimonianze come gli avanzi
dell'abitazione di Terenzio Lucano: quel
Terenzio che liberò lo schiavo africano
(Cartaginese) pure di nome Terenzio (195
- 159 a.C.) Divenuto poi grande poeta
comico latino sulla scia di Plauto (254
- 184 a.C.) suo immediato illustre
predecessore. Reduce dalle guerre
Cartaginesi e nominato senatore Romano
Terenzio Lucano venne a risiedere al
Casale, centro di Armento antico dove
appunto sono gli avanzi del suo palazzo
e la strada a lui intestata tuttora
esistente.
In direzione della Cappella di S.
Antonio exstra moenia, al margine del
torrente, era un tempietto pagano,
portato, via dall'acqua, con due are e
pitture di una venere con una conchiglia
e due tritoni, testimonianza del
paganesimo imperante in Armento come
dovunque. Ma la primitiva Chiesa
parrocchiale dedicata a San Pietro che
era al Casale e l'attuale via San Pietro
induce a pensare che per queste contrade
sia passato a portarvi la semenza del
Vangelo proprio S. Pietro, confermata
anche dalla predicazione di San Paolo
che, sbarcato a Malta, indi a Reggio,
come raccontano gli Atti Degli Apostoli,
sia passato per queste contrade, diretto
a Pozzuoli e infine a Roma: è un ipotesi
seducente. Che se verso il mille, all
epoca di S. Luca e S. Vitale, c'era
tanto fervore di cristianesimo, è da
ritenere che, abbattuti gli dei falsi e
bugiardi, la verità evangelica imperasse
in Armento anche nei secoli precedenti,
senza peraltro, poterne precisare la
data d'inizio.
Occupato da monaci greco-bizantini, tra
il 726 e 730 al tempo dell'iconoclastia
di Leone Isauro, ebbe come Abati San
Giovanni di Galaso e San Ilario di
Galaso che fu compagno di San Vitale
quando si recò presso Basilio Catapano,
ossia Governatore di Bari. Il Castello
Palombara, presso il Fiume Agri, servì
di ricovero al nostro S. Luca, che,
trovandolo in decadenza per la sua
vetustà, lo riattò ed eresse a
Monastero. Qui giunsero i saraceni nel
972, profanando la chiesetta che il
Santo aveva fatto edificare fuori dal
Monastero in onore della Santissima
Vergine, provocando la famosa battaglia
dei cristiani che respinsero quei
barbari, come già si è raccontato.
Il castello di Armento, da vari diplomi
Castrum Armenti, figura eretto già
nell'era precristiana, posto sotto la
protezione di una ninfa, come lo
dimostra la paurosa balza orientale che
lo fortifica, detta ancora oggi la balza
della Ninfa.
Che Armento fosse forte e guerriera lo
dimostrano i suoi tre castelli ed armi e
corazze rinvenute nel suo territorio,
nonché la denominazione di varie
contrade riferita a fatti eroici: Serra
di San Luca, dove si concluse
vittoriosamente la battaglia contro i
saraceni. Pian di Campo, pian di Guanto,
Parabello (Parabellum) che accennano a
sfide e combattimenti. Dei vichi antichi
esistono ancora: la Via Principale che
mena al castello, ossia alla Chiesa (che
il Conte Tuscano, figlio di Rabdi,
signore di Tursi, Petra e Armento, volle
ricavare da un'ala dello stesso
castello, novello Costantino che eresse
il Laterano, per venerare là i corpi dei
Santi Luca e Vitale. Aveva davanti, fino
ai tempi della mia infanzia, un
massiccio loggiato con feritoie detto
Fortino. Seguono: il Vico Lombardo
occupato dai duchi Longobardi, vico
Rabata abitato dai saraceni, Cuccovia,
Ferrante, Ninfa, Via Terenzio Lucano.
Quando nel 476 cadde l'impero Romano
successero, com'è noto, le denominazioni
barbariche: goti, ostrogoti, bizantini,
normanni.
E' esaltante pensare che giovani
Armentesi presero parte alla prima
crociata, capeggiata da Goffredo di
Buglione nel 1090 fregiandosi della
Croce per liberare il Santo Sepolcro.
Seguirono i longobardi, i Franchi, gli
Arabi, gli Svevi, gli Angioini, gli
Aragonesi ed Armento ne subì le
dominazioni fra guerre e paesi, fra
terremoti e quiete, epidemie e sanità,
carestie e abbondanze. Roberto, nipote
del Guiscardo, conte di Montescaglioso,
signore di Montemurro e governatore di
Tricarico con documento del 1068, donò
le terre di Armento e di Montemurro, con
piena giurisdizione civile e criminale
al Vescovo di Tricarico, che era
Arnaldo, primo Vescovo di rito latino
dopo il periodo di rito greco della
precedente dominazione bizantina.
Si succedono sulla cattedra di Tricarico
dal 1068 fino ad oggi 72 illustri
pastori come si conosce, dal 1327, la
successione di 27 Arcipreti di Armento
fino ai nostri giorni, con un vuoto, per
mancanza di documenti, dal 1344 fino al
1420. Interessanti sarebbero gli Atti di
Santa Visita specialmente quelli di
Mons. Santonio del 1500 per conoscere le
vicende Armentesi. Sappiamo di una
carestia del 1462. La peste del 1630 e
del 1656, un terremoto del 1659 e del
1694, una carestia del 1748, il
terremoto del 1857 (tola lucania tremuit)
del 1908, del 1930, del 1980. Ad onta di
ciò re Ferdinando IV nel 1786 ebbe a
dichiarare Armento Città Regia.
A questo punto mi sia consentito di
esclamare con Virgilio: cecidere manus
oppure col Manzoni (ode del 5 Maggio): e
sulle eterne pagine cadde la stanca mano
. Solo a volo d uccello accenno al
brigantaggio che per lungo tempo dal
1860, tenne nelle ansie e nelle paure la
nostra gente con episodi di eroismo e di
crudeltà. Ricordo alcuni vecchi del
paese ora defunti, che raccontavano di
aver visto nella piazzetta, su di un
balcone, una tavola con tre teste di
briganti uccisi, a monito e
scoraggiamento di chi ne avesse avuto
bisogno.
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