Territorio
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Rapolla - Il Castello
Rapolla Pochissimo si conosce del castello di Rapolla. Sappiamo, per esempio, che Rapolla, posto a 439 metri sulle falde nord-orientali del Vulture, è di origini alquanto incerte ed il suo toponimo pare derivare dal lucano “rappa”, con il significato di spina o luogo di spine o di “località coltivata a vigneto”, attività nota nel territorio.
Una bolla di Papa Giovanni XX datata 14 luglio 1028, e un'altra bolla di Urbano II del 1089, dimostrano però che la diocesi di Rapolla fosse subentrata a quella di Cisterna (presso melfi), che nel secondo documento non viene più menzionata. Certo è anche il fatto che un tempo vi era un castello che rivaleggiava con quello di Melfi se nel 1059 Roberto il Guiscardo vi confinò il nipote Ermanno. Va ricordato inoltre che nel 1137 i soldati di Lotario III assalirono la città con l'appoggio dei Melfitani, che la occuparono definitivamente nel 1183; risulta ancora chiaro che la presenza di questo insediamento accentrato viene giustificata dal suo simbolo materiale, cioè le strutture fortificate. Restano dunque le mura, forse preesistenti all'invasione normanna, mentre forse la fortezza fu distrutta nel 1254 da Galvano Lancia che la prese d'assalto “con una moltitudine di soldati e cavalieri, rendendola al completo abbandono”.
All’interno del castello vivevano, alla corte del feudatario, due servi, fratelli: l’uno ricco, ma veramente avaro, l’altro povero ma generoso. Quest’ultimo, vedendo che dal fratello maggiore non poteva sperare nessun aiuto e quel giorno aveva più fame di un maiale, decise di andarsene per le vie di campagna a raccogliere funghi, lumache e quant’altro vi potesse trovare.
Saltando di fratta in fratta scorse da lontano una comitiva di briganti che rappresentavano il terrore di quei paraggi e per non subire offesa riparò in un bosco sulla collina e si nascose tra i rami di una vecchia quercia.
Per combinazione i malviventi, penetrati nel bosco, si fermarono proprio ai piedi di quella quercia e, scavato un fosso, vi sotterrarono tutte le monete d’oro e gli oggetti preziosi che avevano arraffato nella contrada di Ginestra. Dopo di che si allontanarono lasciando sul posto una rozza croce che servisse da segnale. Il giovane, che era rimasto nascosto sino al dileguarsi dei briganti, scese dall’albero, disseppellì il tesoro, lo ficcò nel suo sacco e tornò in fretta al paese.
Per misurare la quantità di oro su cui aveva avuto la fortuna di metter le mani mandò un ragazzino alla casa del fratello perché gli prestasse uno staio. Il fratello, insospettito dalla richiesta, pensò di spalmare di colla la base interna del recipiente: infatti, il fratello non si accorse che una piastra d’argento era rimasta attaccata al fondo dell’utensile. Come l’invidioso congiunto riebbe indietro lo staio e vi scoprì la piastra, comprese a volo di che natura fosse la merce pesata dal fratello e si precipitò a chiedergli quale diavolo lo avesse aiutato ad accaparrarsi il bottino.
Il giovane, smascherato, iniziò a raccontargli l’accaduto e l’altro, che era un mostro d’ingordigia, ingelosito di quella fortuna, pensò di eguagliano dirigendosi anche lui al bosco e qui aspettare al varco i briganti con la fresca refurtiva.
Male però gliene venne, giacché quelli, accortisi della sparizione del tesoro, avevano giurato di vendicarsi del misterioso ladro e ogni giorno uno di essi si appostava in quelle vicinanze per individuarlo e dargli la giusta lezione.
E infatti, non appena l’incauto si fu arrampicato sulla quercia per acquattarvisi, il brigante di guardia uscì dal cespuglio, puntò la doppietta e lo impallinò al sedere facendolo precipitare a piombo sul terreno da misero uccellatore smascherato.
FONTE: Consiglio Regionale di Basilicata.
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